PALERMO – La memoria è “meravigliosa ma fallace”, scriveva Primo Levi: ricordare è necessario, per non lasciar spazio alla rimozione e non ripiombare in errori già commessi. Ecco allora che anche delle piccole testimonianze su ciò che è stato, possono tener vivo il ricordo per una sempre maggiore presa di coscienza collettiva. È per questo che oggi, in occasione della Giornata della Memoria, a Palermo si è scelto di voler ricordare il coraggio di due castronovesi che hanno visto con i propri occhi gli orrori della guerra e con le loro azioni hanno scelto di opporsi al regime nazifascista.

giornata della memoria - medaglie castronovo di siciliaA 71 anni dalla liberazione di Auschwitz dai nazisti, una delle tragedie più grandi della storia, sono Salvatore Pizzuto e Giuseppe Benincasa gli ex combattenti ricordati questa mattina nella Sala Dalla Chiesa della Prefettura di Palermo. Ai familiari di Salvatore Pizzuto è stata consegnata una medaglia d’onore alla memoria conferita con decreto del Presidente della Repubblica, un riconoscimento per coloro i quali hanno partecipato alla Resistenza e alla Lotta di Liberazione (partigiani, internati militari nei lager nazisti o costretti ai lavori forzati per sostenere i costi della guerra). A Giuseppe Benincasa è stata invece consegnata la “Medaglia della Liberazione”, conferita ai reduci della Liberazione per ricordare gli uomini e le donne che hanno messo la loro vita a disposizione del Paese, della democrazia e della Libertà. Alla manifestazione hanno preso parte Autorità civili e militari del palermitano, il Sindaco di Castronovo Francesco Onorato e gli alunni di alcune classi dell’Istituto comprensivo Statale “Mantegna-Bonanno” di Palermo e dalla Scuola Media di Castronovo di Sicilia.IMG-20160127-WA0006

Salvatore Pizzuto: gli anni del servizio militare in Croazia e la prigionia ad Amburgo

Salvatore Pizzuto era tornato a Castronovo per lavorare la terra, un contadino che aveva scelto la quiete della vita di paese dopo le atrocità della guerra: “Non amava parlare di quell’esperienza” – racconta a Magaze il giornalista Salvo Butera, nipote di Pizzuto. “Quando gli chiedevo di quegli anni cercava di cambiare discorso, era molto riservato”.

A 18 anni  aveva iniziato il servizio militare e combattuto per un anno in Croazia. Nel corso di un trasferimento a bordo di una camionetta stava per rimetterci la vita: lui e un compagno avevano sfiorato per un soffio il colpo di un proiettile. Si trovava ancora in Croazia quando l’8 settembre del ‘43 Pietro Badoglio proclamò l’armistizio che generò confusione tra tutte le forze armate italiane impegnate nei vari fronti e lasciate senza precisi ordini. Dopo il disarmo, ai soldati venne chiesto se continuare a combattere nelle file dell’esercito tedesco e Pizzuto fu tra quelli che scelsero la prigionia piuttosto che schierarsi a fianco dei nazisti. Per questo fu catturato, assieme agli altri 815 000 soldati italiani, dall’esercito tedesco, e destinato nelle settimane successive a diventare un I.M.I., internato militare italiano – nome dato dalle autorità tedesche ai soldati italiani catturati, rastrellati e deportati nei territori del Terzo Reich.

Salvatore Pizzuto fu trasferito in Germania e più precisamente nei pressi di Amburgo, dove rimase per due anni senza poter dare alcuna sua notizia alla famiglia. Di giorno era costretto ai lavori forzati, la notte doveva rimanere in carcere. Tanta fame e stenti: il cibo scarseggiava e bisognava arrangiarsi. A tenerlo in vita era la speranza di un ritorno a casa e, quando andava bene, la scodella che qualche buon uomo gli offriva, altrimenti bucce di patate crude o bollite, il pasto più comune tra gli internati italiani in Germania. Fu solo con l’arrivo degli inglesi ad Amburgo che Salvatore Pizzuto poté tornare nella sua Castronovo, dove rimase per tutta la vita.

IMG-20160127-WA0005Peppino Benincasa, lo spirito libero sopravvissuto a Cefalonia

Ribelle dallo spirito anarchico, antifascista fin da piccolo, quando tra le strade di Castronovo non faceva mancare dispetti ai gerarchi del Fascio di cui non sopportava i soprusi: eccolo Peppino Benincasa, il castronovese sopravvissuto all’eccidio di Cefalona. È lui stesso a raccontarsi tra le pagine di un’autobiografia, “Memorie di Cefalonia. La guerra volutamente dimenticata e il martirio della Divisione Acqui” ( a cura di Franco Licata e Mario Liberto): “Non ero maleducato, avevo solo un carattere libero e non sopportavo soprusi ed angherie dei facinorosi e dell’alterigia fascista. Difendevo poveri e handicappati, lottando contro chiunque approfittasse di loro. Non erano di meno le lamentele dei genitori dei miei coetanei quando denunciavano le mie malefatte”. Per questo fu allontanato dalla famiglia e da Castronovo, rinchiuso in un collegio a Palermo.

Nel ’42 fu chiamato alle armi e destinato al 36° regimento di Fanteria motorizzata della Divisione “Pistoia”, trasferito poi alla Compagnia Comando e aggregato alla banda musicale del Reggimento dopo aver dimostrato di saper suonare magistralmente la tromba, per passare infine alla Divisione “Aqui” trasferita a Cefalonia, isola greca nella quale conobbe quella che poi divento sua sposa, Maria Lalli.

Nell’isola Giuseppe Benincasa fu testimone di uno dei più terribili eccidi compiuti nei confronti di soldati italiani da parte dell’esercito tedesco, militante partigiano e uno dei pochi sopravvissuti a Cefalonia. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, infatti,  il presidio italiano costituito dalla Divisione Acqui di cui faceva parte Benincasa, si rifiutò di arrendersi ai tedeschi e, per questo, fu attaccato. Durante i combattimenti morirono più di 1300 italiani e Benincasa, che poco prima era stato ferito da una scheggia, rimase miracolosamente vivo: «Caddi a terra insieme alla catena, il piastrino e la medaglietta […]. Mi venne un impeto di reazione, ma i miei compagni mi fermarono. Fu forse il destino, ma quella caduta fu la mia salvezza. Indolenzito e pieno di rabbia, a digiuno da due giorni e senza dormire, mi addormentai per terra. Non so quanto tempo passò, nel dormiveglia sentii una voce: “In marcia”. A seguire sentii una raffica di spari e i miei commilitoni che si accasciavano su di me. Gli spari si confondevano con le urla ed i lamenti dei miei commilitoni, che cadevano come birilli. Io fui travolto da quell’immenso peso umano che mi cadde addosso. Rimasi schiacciato da tanti corpi oramai privi di vita, non riuscivo a muovermi. Svenni per il dolore e per la disperazione. Al risveglio era buio, mi trovai pieno di sangue con cadaveri addosso ed intorno. Ancora indolenzito e sporco di sangue e con il dolore alla gamba, con la febbre, facevo fatica a reggermi in piedi. Provavo a camminare carponi ma gli sterpi mi ferivano le mani. Non avevo altra scelta, dovevo raggiungere Balsamata, se volevo salvarmi». Fu così che riuscì a salvarsi, grazie all’aiuto degli isolani che non ha mai dimenticato.

Finita la guerra lo “Zio Peppino” – così lo chiamano nel suo paese d’origine – si trasferì in America con la moglie, ma da qualche anno lo si può incontrare quotidianamente tra le strade di Castronovo, dove intrattiene i cittadini con aneddoti e storie all’altezza di un romanzo. Si sa, la vita sa essere più affascinante e avvincente della finzione letteraria.

Fonti: anpi.it
Memorie di Cefalonia. La guerra volutamente dimenticata e il martirio della Divisione Acqui