
“Ignazio Cutrò dopo tutti gli appelli lanciati a istituzioni e politici, visto l’aggravarsi della sua situazione economica verso le banche, intaccata dai danneggiamenti subìti e vista la scadenza della sospensione prefettizia, per sfamare la sua famiglia decide di vendere il suo corpo e i suoi organi iniziando dai reni”. È questo lo scioccante annuncio pubblicato ieri su eBay dalla famiglia di Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona (Ag), testimone di giustizia e perno dell’intero processo che si celebra davanti al Tribunale di Sciacca, scaturito dall’inchiesta “Face Off”, che ha portato alla sbarra le cosche mafiose di Bivona e della bassa quisquina. Cutrò era entrato nelle indagini quando, ascoltato in un’intercettazione della polizia giudiziaria, aveva accettato la proposta di diventare testimone, trovando così il coraggio di denunciare dieci anni di taglieggiamenti mafiosi.
I carabinieri, all’inizio, gli avevano garantito che la sua collaborazione sarebbe rimasta nascosta fino alla fine: nessuno avrebbe saputo dell’aiuto che stava dando alle indagini, tanto che, durante il successivo dibattimento, Cutrò arriva a negare, come concordato precedentemente, di essere a conoscenza di alcuni dettagli delle indagini , come ad esempio la presenza di alcune cimici, giungendo a farsi indagare, consapevolmente, per falsa testimonianza, quando alcune fughe di notizie lo stavano inguaiando. Solo allora decide di raccontare tutto, da quello strano modo di gestire la sua collaborazione, alla sicurezza approssimativa attorno a lui e alla sua famiglia, totalmente inadeguata al rischio reale. Quando va in Prefettura a lamentarsi della situazione divenuta insostenibile, incredibilmente il capitano dei carabinieri Giuseppe Asti, che aveva gestito la collaborazione di Cutrò, gli consegna tra le mani un vero e proprio pizzino, acquisito subito nel fascicolo, con un avvertimento in puro stile mafioso: “La parola migliore è quella che non si dice”.
Da quel giorno la situazione dell’imprenditore precipita: nessuna commessa pubblica che gli consenta di lavorare, nessuna auto blindata ma solo un’utilitaria con due uomini armati, il Confidi, il consorzio di garanzia collettiva dei fidi della Confindustria, che gli nega il proprio benestare presso il Banco di Sicilia, la Serit, agente di riscossione per la Sicilia, che gli scrive che non terrà conto della sospensione prefettizia triennale; proprio in questi giorni, infine, anche le banche gli hanno chiesto di rientrare immediatamente con i debiti, altrimenti partiranno i pignoramenti. La sua azienda, ovviamente, non esiste più e i mezzi sono stati quasi tutti svenduti.
Dalla sua parte si schiera senza timori anche il pubblico ministero di Sciacca, Salvatore Vella, applicato dalla Dda di Palermo e titolare dell’inchiesta: “La storia di Ignazio Cutrò la pagheremo per almeno vent’anni. Quando, tra un paio di generazioni, qualche imprenditore vorrà denunciare la mafia gli ricorderanno la vicenda di quella che ormai è una sconfitta dello Stato, ovvero la triste storia di Ignazio Cutrò. La politica – aggiunge il magistrato – dovrebbe farsi carico di questo problema, si dovrebbero trovare tutti i modi possibili per fare lavorare Cutrò e la sua azienda”. Vella non risparmia però la società civile: “i cittadini di Bivona e del circondario dovrebbero mettersi una mano sulla coscienza: Ignazio costruiva case, tirava su muri, com’è possibile che nessun privato dal 2008 gli abbia commissionato lavori? In quel caso non si sarebbe arrivato a tanto”.
Cutrò, ormai al capolinea, non ha trovato altro da fare che mettersi in vendita e a sentire le voci che corrono negli ultimi giorni a Bivona, pare che la cosca locale gli avrebbe fatto arrivare all’orecchio la sentenza di morte emessa nei suoi confronti.
E lui, l’imprenditore, ora sbotta:“Ioelamiafamiglia–racconta Cutrò – abbiamo creduto in quello che abbiamo fatto e ci crediamo ancora, ma quello che non è riuscita a fare la mafia lo sta facendo chi ci doveva aiutare per lavorare; nessuna risposta da parte delle istituzioni, dove sono i nostri politici? Solo una ha risposto al mio grido di dolore, Sonia Alfano” conclude l’imprenditore. E ci saluta con quella frase che ormai è diventato il suo motto: “Quando varcherò lo Stretto di Messina e lascerò la Sicilia non sarò stato io ad essere sconfitto, ma lo Stato italiano”.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano