“…a li pedi d’una Rocca, chi lu cielo quasi tocca…”

ROCCAPALUMBA – È lì la Rocca, ferma e sicura a sovrastare e caratterizzare il paese, noto per le stelle e i gustosi fichidindia. Di giorno è bianca, lucida, infiocchettata di verde, man mano cali il sole si colora di rosa, per apparire calda e misteriosa la sera, pulsante, dei mille respiri e dei mille battiti di tutti i volatili che in essa trovano rifugio. Maestosa e discreta è il più bel monumento alla natura e ad un popolo che ad essa deve il proprio nome.

«Roccapalumba», dallo spagnolo, «Rocca della Colomba Bianca», solo per breve periodo sostituito con «Rocca Colomba», divenne presto il nomen ufficiale della borgata sorta proprio ai piedi del maniero di Morgana, come G. C. Abba ebbe a definire la roccia nelle pagine del libro-diario sull’impresa garibaldina “Da Quarto a Volturno”. E fu proprio un colombo bianco per lungo tempo il simbolo scelto come soggetto dello stemma comunale, poi sostituito da uno scudo recante il disegno della Rocca e di tre colombe festose nel cielo azzurro.

Interessante è la storia di Xarria, tanto dal punto di vista geologico, che in questa sede tralasceremo, quanto sotto il profilo storico. Essa rientrava nel patrimonio delle Terre Comuni da sempre coltivate o curate liberamente dai contadini, ed oggetto nei primissimi del novecento di una contesa epocale il cui risultato avrebbe cambiato definitivamente le sorti politico-sociali dei roccapalumbesi.

A rivendicare la proprietà di queste terre da un lato i cittadini, guidati dal medico filantropo F. R. Fazio, e dall’altro i ‘signori’ locali di fine ‘800, i quali per un periodo di tempo utilizzarono la Rocca come cava, con l’intento di far profitto vendendone la pietra.

Il cubo di pietra che la sovrasta giunse a posizionarsi in cima per via di un potente scoppio di dinamite, utilizzata per separarne facilmente i blocchi. La risoluzione della causa delle Terre Comuni a favore del popolo salvò Xarria, restituita dunque al suo popolo grazie alla dichiarazione che la fece diventare, insieme alle altre terre oggetto della contesa, bene di Stato e dunque patrimonio di tutti.

Durante la grande guerra nelle casupole costruite a ridosso di essa donne e bambini trovarono protezione dalle bombe, molto prima, l’uomo vi si rifugiò per difendersi dal gelo, riparandosi nelle sue cavità, come falco o colomba, che dalla propria tana sicura poteva sorvegliare i tetti della città delle stelle.

Ai suoi piedi sorge il Santuario della Madonna della Luce, la cui vicenda è indissolubilmente legata al magnifico monumento di pietra, ma questa è un altra storia. Oggi, la sua presenza è scontata ai nostri occhi.

Eppure, col suo volto scavato e tuttavia pulsante di vita, ‘mamma Rocca’ continua tutt’oggi a proteggere i segreti di un popolo cui ha dato una casa, un volto, un nome, di cui conserva come scrigno la memoria.

Le foto sono di Hojjat Baghchighi, il titolo è tratto dai versi dal poemetto “Grande storia d’una causa”scritto da Filippo Mistretta nel 1927 con l’intento di lasciare ai posteri una preziosa testimonianza della liberazione delle terre comuni.