Operazione Grande Passo: cinque arresti tra Corleone e Palazzo Adriano

I Carabinieri della Compagnia di Corleone hanno sviluppato una complessa ed articolata attività di indagine coordinata dalla DDA di Palermo – sotto la direzione del Procuratore dott. Leonardo Agueci e del Procuratore Aggiunto Vittorio Teresi, supportati dai Sostituti P.M. che si occupano dell’area orientale della provincia di Palermo – e condotta sulla famiglia mafiosa di Palazzo Adriano, operativa nell’ambito del mandamento di Corleone, a seguito della quale nella mattinata odierna sono state arrestate 5 persone tra boss e gregar, indagati oltre che per associazione mafiosa anche – a vario titolo – per estorsione, danneggiamento, turbata libertà degli incanti e furto, reati aggravati dall’essere stati commessi con l’aggravante del metodo mafioso.
L’indagine prende le mosse da un denuncia di un funzionario di un ente locale vittima di un episodio estorsivo da parte della consorteria mafiosa. Il successivo approfondimento investigativo sulla vicenda ha permesso di evidenziare l’esistenza di una vera e propria organizzazione criminale, dedita prevalentemente alla commissione di reati estorsivi con il tipico metodo mafioso, e di individuare con esattezza ruoli e funzioni dei suoi appartenenti.
Le indagini, sviluppate negli ultimi due anni attraverso attività tecniche e servizi di osservazione e pedinamento, hanno permesso di ricostruire l’intero assetto della famiglia mafiosa di Palazzo Adriano, nonché il suo completo inserimento all’interno del mandamento mafioso di Corleone, permettendo di individuare anche il relativo supervisore.
Grazie all’intenso lavoro investigativo di Magistrati e Carabinieri, è stato individuato quale supervisore della famiglia di Palazzo Adriano la figura di Antonino Di Marco, originario di Corleone, dipendente comunale. L’attività d’indagine ha permesso di evidenziare, oltre alla sua appartenenza alla famiglia mafiosa di Corleone, anche il suo ruolo direttivo e di controllo sulla famiglia mafiosa di Palazzo Adriano, rappresentando un punto di riferimento e collegamento tra questa e il mandamento mafioso di Corleone grazie alle funzioni di supervisione e coordinamento al fine di gestire gli affari illeciti del sodalizio. In tale ruolo, ha dimostrato capacità di intervenire personalmente per risolvere contrasti tra le diverse famiglie mafiose contermini, tra cui quello della definizione dei rispettivi limiti territoriali, per dirimere dissidi privati relativamente a taluni pascoli e per condurre attività estorsive.
Privo di qualsivoglia precedente penale, Di Marco si presentava quale anonimo dipendente comunale. Rare sono state le sue frequentazioni con personaggi d’interesse operativo in pubblico, avendo lo stesso adottato ogni accorgimento per mantenere un atteggiamento di basso profilo che non insospettisse in nessun modo le Forze dell’ordine.
Invero, Antonino Di Marco si è dimostrato essere capo assolutamente carismatico e molto deciso: fautore di una linea d’azione prudente, con una vasta conoscenza – per sua stessa ammissione durante le conversazioni intercettate – delle dinamiche di “cosa nostra” e dei suoi personaggi più influenti, tra cui i noti Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca. Ne conosce e rispetta le regole, pretendendo che altrettanto facciano gli associati suoi sottoposti.
Egli, peraltro, è fratello di Vincenzo Di Marco (classe ’46), corleonese di nascita, ma residente nella vicina cittadina di San Giuseppe Jato sin dal 1973. Questi fu tratto in arresto il 5.2.1993 per favoreggiamento personale del boss Salvatore Riina, durante la sua latitanza. Fu condannato con sentenza passata in giudicato e nel 1998 sottoposto a misura di prevenzione patrimoniale. Era considerato l’autista della moglie di Riina, Antonina Bagarella, e quindi un fedelissimo del capo storico di “cosa nostra”. Il giorno prima dell’arresto di Salvatore RIINA fu filmato e visto uscire dal covo di via Bernini a Palermo in auto con a bordo la Bagarella e due dei figli di RIINA.

Le indagini hanno dimostrato come la famiglia mafiosa di Palazzo Adriano sia storicamente ricompresa, insieme a tutte le altre dei comuni del circondario, nel mandamento mafioso di Corleone. Non è apparso, quindi, anomalo che a dirigere e controllare la competente famiglia mafiosa vi si trovasse proprio un corleonese, finora rimasto immune alle numerose operazioni antimafia.
Le numerose intercettazioni telefoniche e i servizi di pedinamento hanno poi permesso di ricostruire con precisione l’organigramma di questa famiglia mafiosa, individuandone le competenze territoriali.
Nello specifico, si è riuscito a ricostruire l’intero organigramma con ruoli e compiti dei suoi associati: Pietro Paolo Masaracchia, inteso “l’ingegnere”, capo famiglia e responsabile operativo degli associati originari di Palazzo Adriano, nonché cassiere della famiglia;
Nicola Parrino, inteso “svuota sacco”, altro luogotenente di Di Marco su Palazzo Adriano, ma utilizzato da questi anche quale portavoce con i mafiosi delle zone limitrofe. Per sua stessa ammissione è stato vivandiere del boss all’epoca latitante Ignazio Vacante. Egli è imprenditore e la sua principale attività è proprio quella di intromissione negli appalti pubblici e la riscossione del pizzo alle imprese per conto di Di Marco e dell’intera famiglia mafiosa; i fratelli Franco e Pasqualino D’Ugo, manovalanza operativa alle dirette dipendenze di MASARACCHIA Pietro Paolo con precipui compiti di controllo del territorio e realizzazione di atti intimidatori e danneggiamenti. In merito alla “cassa” le indagini sul sodalizio criminale di tipo mafioso operante tra Palazzo Adriano e Corleone hanno permesso di appurare anche che quella famiglia raccoglieva i proventi delle estorsioni all’interno appunto della cassa comune, gestita direttamente dal capo famiglia Pietro Paolo Masaracchia e utilizzata per finanziare le diverse azioni criminali nonché le piccole spese di tutti i sodali.

LE ESTORSIONI E I DANNEGGIAMENTI
L’associazione ha continuato a mantenere saldamente in mano il controllo del territorio anche attraverso la pressante azione estorsiva nei confronti di imprenditori ed il controllo dei pubblici appalti. Infatti, sono stati ricostruiti ben 6 casi di estorsione e due tentate estorsioni, ai danni di ditte impegnate prevalentemente nella costruzione e rifacimento di tratti stradali nel comune di Palazzo Adriano. Singolare un caso in cui l’imprenditore, originario di Palazzo Adriano, ricerca protezione presso la locale famiglia mafiosa per avviare un’attività commerciale al di fuori di quel comune, contando sui buoni uffici degli affiliati nei confronti della famiglia mafiosa competente per territorio. L’imprenditore pagherà due volte il pizzo: alla famiglia mafiosa competente sul luogo dei lavori e a esponenti di Palazzo Adriano quale rimborso per l’intermediazione. Sintomatico dell’assoggettamento a “cosa nostra” è il caso di un altro imprenditore che, nel cercare di “mettersi a posto”, manifesta tutta la sua convinzione nell’adesione intima alle regole dell’associazione.
Le attività investigative hanno consentito, quindi, di accertare la consumazione di più episodi di pagamento, contribuendo a delineare ulteriormente l’operatività della locale famiglia mafiosa. Tali pagamenti, nella maggior parte dei casi, hanno mantenuto la canonica percentuale del 3% dell’importo complessivo del lavoro da eseguire. Tuttavia, in una circostanza, quasi a dimostrare una benevolenza dell’associazione per la difficile situazione economica della vittima, la percentuale è stata ridotta dal 3 all’1%.
In altri casi, gli associati, oltre a richiedere il pagamento della somma di denaro, hanno imposto agli imprenditori anche l’utilizzo di manodopera e l’acquisto di materie prime presso imprenditori da loro indicati.
Quanto ai metodi utilizzati, al fine di convincere le vittime alla cosiddetta “messa a posto”, la consorteria ha utilizzato il classico metodo intimidatorio della bottiglia incendiaria. Inoltre, per attirare l’attenzione degli imprenditori, gli affiliati hanno proceduto anche ad effettuare furti e danneggiamenti all’interno dei cantieri proprio nell’immediatezza dell’inizio dei lavori.
In conclusione, quella che è emersa dalle indagini è la fotografia di una mafia organizzata ed ancorata alle vecchie regole formali e gerarchiche di cosa nostra, anche se incentrata su un’economia pastorale ed agricola, i cui maggiori valori rimangono la terra e il “rispetto” della comunità ove opera e il cui principale mezzo di sostentamento è rappresentato dal provento delle estorsioni: si aggrediscono prevalentemente i flussi pubblici di denaro, limitando l’intervento sulle attività economiche di privati.
Molto forte si è, quindi, dimostrata l’influenza della famiglia sulla gestione della cosa pubblica del Comune di Palazzo Adriano e il suo interesse per tutti gli appalti.
Quanto alla location ove i fatti in narrazione sono ambientati, è da sottolineare come Palazzo Adriano sia stato agli onori della cronaca anche qualche anno fa, quando è stato indicato come luogo ove realizzare un sicuro nascondiglio prima di Bernardo Provenzano e poi di Giuseppe Falsone, boss agrigentino tratto in arresto a Marsiglia in data 25 giugno 2010.
Nelle ferree logiche mafiose, l’essere stato più volte scelto come luogo di latitanza di un boss è un segnale inequivocabile di come una terra possieda intrinsecamente tutte quelle caratteristiche che permettono di ridurre al minimo i rischi che una latitanza stessa comporta.
Come inequivocabile è l’affidabilità e la forza dimostrate dalla famiglia reggente in quel territorio: testimonianza, quindi, che proprio la cosca mafiosa di Palazzo Adriano, nel corso degli anni, ha “storicamente” mantenuto la sua vicinanza dottrinale, ancor più che geografica, a Corleone.

COMUNICATO STAMPA